dalla presentazione della personale presso la Galleria San Carlo, Milano 2009
Ciò che più definisce, a mio avviso, il senso dell’operare di Erio Carnevali, è la volontà di fare del colore il centro d’attenzione di ogni aspetto del suo lavoro. Un colore che vorrebbe sussistere al di là del supporto, o dei supporti, ai quali si rivolge. Per questo, il suo muoversi fra tecniche, ipotesi di lavoro, forme di intervento diverse nel settore dell’arte “applicata”, non va giudicato come dispersivo, rappresentando piuttosto la conseguenza di un’attrazione per la qualità intrinseca e per la presenza del colore nelle sue varie forme, come materia da distribuire nello spazio e da dissolvere, quasi, nel vuoto. Quelle “polveri” che fanno la sostanza del colore nella tradizione della pittura fin da epoche lontane, e che riemergono in alcuni passaggi dei suoi procedimenti, per quanto adeguati a strumenti e modi di comporre dell’oggi, si possono intendere anche come essenze o risonanze diffuse al di là del sensibile. Così una visita al suo studio può permettere di apprezzare le prime idee di spazi di colore diluiti negli acquerelli su fogli di piccolo formato, o le carte intrise di un colore che le trasforma in materie spesse, pesanti, quasi concrezioni archeologiche. Si può anche guardare ai recenti suoi interventi ambientali, come il grappolo d’uva realizzato con globi di vetro soffiato di vario colore, collocato in uno svincolo stradale attorno a Modena, o la fontana “di luce” recentemente realizzata per Reggio Emilia, per coglierli come desiderio e via di naturale sviluppo della sua tensione a voler fare del colore il motivo dominante di un incontro con la luce e lo spazio, dove riconoscere il motivo essenziale di un agire come pittore interessato ad andare oltre la pittura. […] Negli ultimi mesi Carnevali ha infatti ideato e realizzato alcuni dipinti che fanno il verso a una forma-quadro articolata e metaforicamente valida a introdurre nuove argomentazioni al confronto con una storia della pittura che guarda all’antico e al sacro. Trittici, polittici, forme iconiche che ricordano i tabernacoli privati o le piccole pale d’altare trasportabili, le sue pitture su tavola alludono a tutto un modo di concepire l’opera pittorica al di là delle sue motivazioni estetiche, come luogo di contemplazione, di una visione, cioè, che si fonda sul desiderio di guardare oltre, di diventare strumento di una ispirazione ulteriore o di una percezione di trascendenza. Così facendo, Carnevali, come è stato recentemente messo in luce, si è trovato a confrontarsi con il senso e le caratteristiche di una pittura “sacra”, quale è quella concepita nella forma delle icone proprie della cultura orientale. Più volte, all’interno del recente volume a lui dedicato, viene indicato come il lavoro pittorico di Carnevali si trovi a mettere in rapporto il visibile con l’invisibile, o a indicare, idealmente, un’aspirazione alla trascendenza, per cui se, come dice Portoghesi, lo stare sul crinale fra due ambiti di realtà differenziati può spingere a evocare il pensiero di Heidegger, la definizione in senso “sacrale” del dialogo fra la realtà (del colore, della pittura) e la sua trascendenza (in luce, in “altro da sé”), conduce a citare le letture teoriche – e teologiche – di Florenskij, che vede l’icona come una vera e propria “teofania”. […] Questa non è e non vuole essere la ragione di fondo di un dipingere come quello di Carnevali, che recupera alcuni aspetti di un distacco dalla materia e di un’aspirazione al sacro, senza però generare opere destinate a ragioni di culto o specificamente innervate di una tensione spirituale. Questa, se c’è, riguarda una similitudine operativa, strutturale, o una definizione si spiritualità che si qualifica nella pittura, nel suo essere, in sé quindi, un modo di andare oltre la realtà e il visibile. Affine alle icone orientali può essere il punto di partenza, più che quello di arrivo. […] Non si tratta di inoltrarsi in un giudizio in merito al grado e al carattere fideista o religioso, ma di comprendere come opere, quali quelle stesse realizzate da un autore attento alle trame, agli sviluppi, alle espansioni del colore, come Erio Carnevali, possano manifestare delle affinità con la natura dell’icona non nella sua qualità trascendente, ma per la sua presenza immediata, per quanto di genere “negativo”. L’immagine (icona) si risolve perciò nella sua negazione, in un vuoto o in un’assenza qualificata da un colore che vuole essere luce, nel riprendere quelle che Luciano Caramel, presentando una precedente mostra dell’artista nella medesima Galleria San Carlo di Milano (nel 2002), qualificava come “presenze inafferrabili”, di segni, di tracce imprendibili, legate comunque al fenomenico, più che al metastorico. Non potrebbe, probabilmente, che essere così, in un’epoca in cui l’agire con la pittura si misura necessariamente con la tradizione pittorica, in primo luogo, e dove il confronto si instaura con i caratteri concreti di una pittura che può recuperare del passato semmai le forme, le “tracce”, appunto. Queste sono visibili, nel lavoro di Carnevali, nella disposizione a trittico o a polittico, che immediatamente riconduce a un mondo di forme e di sollecitazioni contemplative particolari, ma possono anche configurarsi nella più laica sperimentazione di tecniche, di effetti cromatici, di situazioni dinamiche singolarmente individuate attraverso le colature e le disposizioni ottenute mediante il particolare processo di ingrandimento fotomeccanico al quale egli sottopone alcuni particolari di suoi dipinti, quindi nuovamente elaborandoli con colore e polveri. Il motivo centrale che unisce le varie fasi del lavoro si può anzi riconoscere in quell’incontro tra la polvere d’oro e la liquidità del colore, come dialogo fra sostanze in cui si svolge un conflitto, tutto pittorico, fra l’adesione al momento, all’istantaneità dell’immediato fluire, del colore come pittura e come sostanza vitale, e il suo fissarsi, reale o meccanico, in una condizione compiuta, fossilizzazione di un evento vitale.
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