Il cosmo della meccanica mentale e gli orizzonti del colore – Claudio Spadoni

dalla presentazione della personale presso il Museo d’Arte delle Generazioni Italiane del ‘900, Pieve di Cento (Bologna) 2005

Carnevali, certo, non ha mai rischiato il muro di gomma della tautologia, che poi equivaleva per molti versi alla constatazione dell’irrilevanza delle specifiche ragioni pittoriche, nel dominio della valenza, tutta mentale, di un’enunciazione. Per tornare all’osservazione di Portoghesi,basti dire che era rivolta a qualificare il lavoro maturo di Carnevali in una chiave sostanzialmente diversa rispetto ad un’attualità più incline ad esiti pittorici risolti in chiave iconica, come si potrebbe definire. Ecco, un tempo fagocitato da immagini d’uso corrente, in altri termini di derivazione più o meno diretta dai mass media; un tempo a maggior ragione non proprio incline alla pittura che ormai tradizionalmente, anche se con larga approssimazione, si definiva astratta. Fatta salva, a stento, quella parte ascritta ad una frangia per così dire decorativa quale ultima propaggine postmodern. Con la quale, sia ribadito subito a scanso di equivoci, l’artista modenese non ha davvero nulla da spartire. Basterebbe scorrere, per via filologica, i nomi dei padri nobili, o dei referenti ideali che potrebbero essergli  ascritti e che puntualmente sono stati indicati dai suoi più attenti esegeti, per spazzare via ogni possibile dubbio.  Anche a prescindere dalla considerazione che lo stesso Carnevali non ha fatto che confermare come i suoi quadri siano “racconti”, e sia pure, preme precisare, racconti del colore e sul colore, vale a dire oltre ogni concessione all’aneddoto, ad una più diretta leggibilità figurativa. Racconti, appunto sulla realtà prima dell’opera tenendo per buono, ancora una volta, il lontano avvertimento di Denis su cosa sia prima di ogni altra cosa un quadro. A maggior ragione perché questi racconti, come fa intendere lo stesso Carnevali, vogliono apparire come avvolti dal silenzio, profondati nei luoghi oscuri della introversione, riformulati fin quasi all’ossessione. “Il colore come qualità, qualità dell’anima”, aggiungeva tempo addietro quasi volesse rendere più esplicito l’accento Kandinskijano delle sue parole, oltretutto dichiarato per via di citazione diretta in un’opera d’una decina d’anni fa, Il colore come risonanza interiore. Ma ancora Caramel, alcune stagioni dopo, riprendendo una osservazione di Portoghesi, spendeva un nome che a tutta evidenza poteva risultare un riferimento ancor più pertinente: Marc Rothko. In fondo, in questo tragitto che idealmente va da Kandinskij al pittore russo di Dvinsk emigrato negli Stati Uniti (e non è un caso se in tema di spiritualità e di colore ci si imbatte proprio in due russi) si sviluppa una linea nobile, e della più acuta sensibilità, della pittura cosiddetta astratta. Fino alle estreme conseguenze delle complicazioni esistenziali che hanno segnato la generazione di Rothko e quella immediatamente successiva, salite insieme alla ribalta nell’immediato dopoguerra.

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