dal volume “Erio Carnevali. Una pittura di polvere”, Gangemi Editore, Roma 2008
Le “polveri di Carnevali” entrano di buon diritto nelle alterne vicende della pittura astratta in quanto rappresentano il riaffiorare della naturalità nel processo di formazione dell’immagine non come figurazione, ma come esemplificazione di un percorso in cui le leggi della natura: la combinazione degli elementi, la forza di gravità, la tensione superficiale dei liquidi, si manifestano sotto il controllo sensibile di quegli strumenti che consentono al corpo di partecipare attivamente a una sorta di danza che sfrutta la tendenza della materia ad auto-organizzarsi, ma non si accontenta di ascoltarla e riesce a guidarla consapevolmente. Si tratta di un processo stocastico ben noto a musicisti, pittori, architetti che sfruttano la casualità ma sanno trasformarla in docile mezzo espressivo. In questo percorso tecnico che sfida le virtualità combinatorie del colore, della luce, della linea, Carnevali si imbatte oggi in qualcosa che sovrasta la vicenda delle cose messe in gioco, una superficie, le terre colorate, l’umidità del foglio, la sua posizione rispetto alla forza di gravità. Questo qualcosa che si manifesta nella imprevedibile ricchezza delle forme, ma che è nettamente “separato” dalla forma e dalla materia ripropone all’artista il remoto orizzonte del sacro. Il sintomo di questa irruzione del sacro, avvertita ed accolta come imprevedibile conseguenza di una ricerca apparentemente confinata nell’orizzonte della tecnica, si evidenzia nel ricorso a una delle più tipiche istituzioni del sacro: quella forma di pala di altare che può essere chiusa o aperta in quanto composta di una immagine centrale coperta da due sportelli. Il cosiddetto “trittico” si dà alla osservazione in due forme alternative: quella dei due sportelli chiusi, non di rado dipinti con figure angeliche, e quella della immagine nascosta compresa tra due altre immagini. A una forma chiusa contratta, protettiva si contrappone quindi una forma aperta che si manifesta dischiudendosi, ma rimane sostanzialmente celata. L’astrazione diventa così non solo abbandono di figure visibili ma rappresentazione dell’invisibile o meglio indagine sul punto di separazione tra visibile e invisibile. La materia quindi, sottraendosi alla visibilità, si trasforma in vibrazione e in quanto vibrazione prepara nuove materie oltre che intensità di natura spirituale. Diventa così possibile – e questo è quello che interessa particolarmente Carnevali – raccontare l’invisibile attraverso le sue tracce nel visibile. Quando il trittico si apre il visibile non è che un domandare, un desiderare, un attendere e le vibrazioni della materia che cola, ripetitive come i grani di un rosario, intonano una preghiera senza parole, una nenia sommessa che, nello stesso tempo e nello stesso spazio cela e rivela l’invisibile. Carnevali con questi suoi esperimenti indaga il mistero delle coincidenze non alla ingenua ricerca di formule che consentano di tradurre un linguaggio in un altro, ma per il gusto di attingere al terreno fertile delle correspondances cantato da Baudelaire.
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